Dai gialli alla racchetta: il tennistavolo secondo Marco Malvaldi
Ai Campionati Italiani di Terni, nel singolare di quinta categoria, ha superato il girone ed è uscito nel secondo turno del tabellone contro Fabio Landolfi, che poi sarebbe arrivato in semifinale. Per lui il tennistavolo è soprattutto passione, un numero uno lo è già, ma in un altro settore. Il 43enne pisano Marco Malvaldi è uno dei giallisti italiani più noti, che si è meritato il privilegio di riuscire a vivere facendo ciò che gli piace, avendo trasformato un hobby in un lavoro. Da “I delitti del BarLume” è stata anche tratta una serie televisiva trasmessa su Sky.
È sposato con Samantha, che gli fa da agente, ed è papà di Leonardo di 7 anni, che pratica il karate e di passare al tennistavolo non ne vuole proprio sapere. Una racchetta ha fatto capolino nella vita di Marco fra la fine delle scuole medie e l’inizio del liceo.
«Vicino a casa mia - ricorda - c’era una vecchia chiesa sconsacrata, nella quale un maresciallo dei Carabinieri in pensione aveva messo qualche tavolo da ping pong. All’inizio si giocava e basta, poi arrivò un atleta, Maurizio Raspi, che insegnò a giocare a qualcuno. Ho iniziato nello stesso periodo di Nicola Di Fiore, poi lui evidentemente era più portato e ha fatto un percorso diverso dal mio. Sono andato avanti per qualche anno e poi ho smesso».
Come hai ricominciato?
«Ho rivisto Christian Ghelardi, un ragazzo che conoscevo, e mi è ripresa la passione. Due o tre anni fa con l’Acsi Pisa, siccome ci avevano sfrattato dalla vecchia sede, con un gruppo di amici, composto da Luca Malucchi, Alberto Taccini, Maurizio Raspi e Riccardo Venturi Bozza, abbiamo acquistato una palestra e messo su un’attività più strutturata. Luca è stato colui che ha dato un po’ il “la” a tutto, dal punto di vista organizzativo».
Quanto riesci ad allenarti?
«Un paio di volte alla settimana, ma in modo discontinuo. Il tennistavolo è uno sport che crea dipendenza. Mi piace perché insegna a mantenere la calma e a ragionare sotto pressione. È veramente come giocare a scacchi sciando. Poi è una di quelle attività che quando la pratichi non puoi pensare ad altro. Anche volendolo, non ci riusciresti. È un porto sicuro. Nel tennistavolo puoi prendere delle decisioni solo quando il tuo corpo sa già fare determinate cose. Man mano che aumenta ciò che sai fare, cresce il tuo livello e dunque anche quello dell’avversario. Si è sempre in bilico fra l’istinto e il ragionamento e si deve imparare a gestire questa situazione. A questo proposito c’è una storia bellissima».
Quale?
«Matthew Syed, scrittore inglese degli anni ’90 e grande atleta, alle Olimpiadi di Sydney doveva disputare la sua partita della vita contro il tedesco Peter Franz. Prima di entrare in campo, si ritirò nello spogliatoio e cominciò a pensare alla tecnica dei gesti e non alla tattica. Quando fu il momento di giocare non mise di là una pallina. Dopo il match era affranto ed era convinto che il suo tecnico Desmond Douglas, che era una persona piuttosto soggetta ad arrabbiarsi, gli avrebbe fatto una scenata e invece l’allenatore allargò le braccia e gli disse: “Concentrandoti sulla tecnica, ti sei ingolfato”. È stato provato infatti che quando ti concentri razionalmente su cose che il tuo corpo sa benissimo come fare, rallenti e sei destinato a commettere degli errori».
Che studi hai fatto?
«Mi sono laureato in Chimica nel 1999, poi ho fatto il dottorato e l’assegno di ricerca. Sono stato un anno in Olanda come visiting professor e quando sono tornato in Italia è esploso il successo come scrittore. Avevo scritto il primo libro, che s’intitolava “La briscola in cinque” mentre facevo la tesi di laurea, sostanzialmente per non perdere il cervello. Era però rimasto nel cassetto».
Come ci è uscito?
«Per un motivo abbastanza banale, qualche anno dopo. Inviavo delle e-mail che erano abbastanza divertenti per il Consiglio di Dipartimento dell’Università. Qualcuno mi disse che sapevo scrivere bene. Ho pensato al libro che avevo messo da parte e ci ho provato. L’ho mandato a varie case editrici e Sellerio mi ha risposto che lo avrebbe pubblicato».
Perché hai scelto il genere giallo?
«È il più semplice da leggere e da scrivere».
Semplice da scrivere? Avrei detto il contrario …
«Ti spiego il trucco. Se ti faccio vedere un Cubo di Rubik disordinato e lo risolvo velocissimamente in un filmato, puoi pensare che io sia un genio. Se però poi ti dico che ho preso il cubo nuovo e l’ho scompaginato e poi ho presentato il filmato al contrario, il gioco è fatto. Un giallo funziona esattamente allo stesso modo, si parte dalla fine e si torna indietro aprendo delle diramazioni. Così puoi creare la trama più complicata del mondo, perché tanto sai che devi arrivare lì. È chiaro però che lo scrittore deve avere una forma mentis scientifica. I metodi che si usano a livello scientifico per risolvere determinati problemi hanno esattamente questo approccio. Per scrivere devi essere allenato e devi dunque aver letto molto. Ho sempre letto molti gialli, in realtà qualsiasi libro. Amo i classici come Rex Stout, in poche parole Nero Wolfe. Mi è sempre piaciuto molto Andrea Camilleri, che ha sdoganato l’uso del dialetto. I miei protagonisti, infatti, parlano in toscano».
Dopo “La briscola in cinque” cosa è accaduto”?
«È andato bene e ho scritto un altro libro e poi un terzo. La scrittura era però ancora solo un hobby ben remunerato. In occasione della quarta opera “Odore di chiuso” ho avuto un enorme colpo di fortuna. È uscito nel 2011 e aveva come protagonista Pellegrino Artusi, il compilatore del manuale di cucina più famoso. Non ci avevo pensato, ma Artusi era morto nel 1911 e dunque era l’anno del centenario. Il libro ha ricevuto un’attenzione spaventosa. Avrei avuto il concorso da ricercatore di lì a qualche mese e la mia capa all’Università mi guardò e mi chiese se fossi proprio sicuro di voler partecipare. Le confessai che avevo dei dubbi».
Come si svolge la tua giornata?
«Scrivo al mattino e leggo al pomeriggio, quando mi dedico anche un po’ all’attività fisica. Faccio molte presentazioni e serate in giro per l’Italia, un centinaio l’anno. Scrivo anche libri di divulgazione scientifica, principalmente di matematica. L’ultimo saggio, “Le due teste del tiranno. Metodi matematici per la libertà” è uscito ad aprile. Il grande vantaggio di essere uno scrittore e che posso buttare via il mio lavoro. Per dirla in termini sportivi, esiste sempre la possibilità di rigiocare il punto e dunque di farlo diversamente».
Il tennistavolo ti ha mai ispirato?
«Libri ne sono stati scritti e ce n’è uno molto bello di Howard Jacobson, che era anche un giocatore, che s’intitola “L’imbattibile valzer”. È stato tradotto in tandem da Isabella Graziola e Massimo Costantini. Mi piacerebbe molto scrivere qualcosa su questo sport, nel quale però ritengo che si sia molto meno consapevoli da spettatori che da giocatori. Da fuori dal tavolo manca l’informazione su quale spin abbia la pallina e questo cambia tutto. Più che in un libro potrei cimentarmi in una sceneggiatura per un film. Sarebbe bello trovare qualche atleta bravo, che fosse anche in grado di recitare».
Sullo sport hai scritto “Le regole del gioco”?
«L’idea è nata dalla “Maledetta”, la punizione con cui Andrea Pirlo realizzò un fantastico gol al Napoli. Si parla anche di molto altro, come del già citato Matthew Syed e dell’intuizione di Dick Fosbury, che inventò lo stile rivoluzionario del salto in alto. Fu un caso raro di razionalità applicata allo sport da parte dell’atleta. Fosbury era un ingegnere che saltava ventrale e studiando capì invece che il saltò di schiena pone il centro di massa sotto l’asticella e diminuisce lo sforzo».
Prossima fatica letteraria?
«Ho appena ultimato un romanzo, dal titolo “Negli occhi di chi guarda”, che uscirà a ottobre. Ho mandato da poco la prima versione a Sellerio e ci sarà un po’ di ping pong, prima della stesura definitiva».